ROMA – Al capitano dei carabinieri che subito dopo il rilascio gli chiese se era Paul Getty junior, precisò: “terzo, Paul Getty III, dopo Daddy, che è il secondo, e il nonno, che è il primo”. Poi l’allora diciassettenne erede di una delle più ricche dinastie del petrolio degli Stati Uniti – morto oggi in Gran Bretagna, dopo un alunga malattia – aspettò negli uffici dei carabinieri di Lagonegro (Potenza) l’arrivo della madre da Roma, dove era stato rapito il 10 luglio 1973. I rapitori, probabilmente componenti delle cosche della 'ndrangheta dei Piromalli e dei Mammoliti, lo rilasciarono all’alba del 15 dicembre sull'Autostrada del Sole vicino allo vincolo per Lauria, in provincia di Potenza, al confine tra Basilicata e Calabria, dopo 158 giorni di prigionia e con una cicatrice rossastra al posto dell’orecchio destro, inviato alla famiglia per dimostrare che il rapimento non era una messinscena. All’inizio, infatti, in pochi avevano creduto al sequestro di questo hippy di lusso, scomparso alle tre di mattina a Roma nella zona di piazza Farnese, a due passi da piazza Navona e campo dè Fiori. Si pensò che avesse montato tutta la storia per estorcere denaro al nonno ricchissimo. Così, quando il 26 luglio arrivò la richiesta di un riscatto di due miliardi, poi aumentato a dieci, il padre continuò ad essere scettico e il patriarca, dalla sua reggia nel Surrey, in Inghilterra, rispose picche.
“Ho 14 nipoti - disse Getty I – e se pago per uno, prima o poi mi rapiscono anche gli altri”. Per più di due mesi tutto tacque, almeno ufficialmente, anche se si parlò di contatti tra rapitori e legali della famiglia e di detective arrivati dall’America. Poi il 14 novembre, preannunciato da una lettera, i rapitori mandarono ad un quotidiano un plico con dentro un ciuffo di capelli rossi e un orecchio destro tagliato. La madre, Gail Harris, l’unica ad aver sempre creduto al sequestro, riconobbe i capelli, ma ci furono dubbi sull'orecchio, e il massimo che i periti furono in grado di dire fu che era stato tagliato ad una persona viva, di età inferiore ai 30 anni. Otto giorni dopo la prova: una telefonata avvertì che alcune fotografie di Paul Getty con l’orecchio mozzato erano state lasciate sul bordo dell’autostrada Roma-Napoli, vicino a Valmontone (Roma). Nel posto indicato c'era un barattolo con dentro cinque foto polaroid, dalle quali risultava evidente la mutilazione.
Il ribrezzo generale per il “reperto anatomico” investì il padre e il nonno del rapito e si arrivò al paradosso quando decine di lettori scrissero ad un giornale chiedendo l’apertura di una sottoscrizione popolare per mettere insieme i soldi del riscatto. L’atteggiamento dei primi due componenti della dinastia Getty sembrò sconvolgere anche i rapitori, i quali nel messaggio che accompagnava le foto del ragazzo scrissero della famiglia “che è la più ricca del mondo e dimostra di essere la più caina”. A quel punto i Getty si mossero e le trattative vennero condotte con più concretezza. Chiesto e ottenuto il silenzio della stampa, intorno al 12 dicembre un rappresentante di Paul Getty senior consegnò ai rapitori la cifra sulla quale era stato raggiunto l’accordo: un miliardo e settecento milioni di lire. Settantadue ore dopo vi fu il rilascio dell’ostaggio, lo stesso giorno dell’ottantunesimo compleanno del capostipite. Il processo di primo grado per il rapimento di Paul Getty III terminò nel luglio del 1976 a Lagonegro (Potenza) con due condanne e sette assoluzioni, anche se cinque degli assolti furono condannati per altri reati. I due imputati riconosciuti responsabili del sequestro erano “manovali”, mentre degli unici due personaggi di rilievo imputati uno, Girolamo Piromalli, detto “Momo”, fu assolto per insufficienza di prove da ogni accusa, e l’altro, Saverio Mammoliti, “Saro”, latitante da tempo, fu condannato per traffico di stupefacenti e associazione per delinquere. In Corte di appello, a Potenza, le pene furono ridotte a tutti. Il procedimento, per decisione della Cassazione, ebbe poi una "coda" a Milano. Successivamente uno dei due rapitori, per altre vicende, fu anche internato per un periodo in un manicomio. Tranne poche banconote ritrovate, il grosso del riscatto sparì nel nulla, verosimilmente utilizzato per finanziare l'espansione della ' ndrangheta nel traffico dell’eroina.
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